All’ispettore Antonioni bastarono quindici minuti esatti per venire a capo della misteriosa scomparsa degli indiziati, dopo che l’agente Ambrosetti, arrivato al termine dei quattordici minuti di concentrazione che riuscì a mettere in fila come grani di rosario, aveva concluso, perplesso, grattandosi il mento, con un banale: «A questo proposito: non ho niente da segnalare!»
All’ispettore bastò verificare che i tre uomini sotto sorveglianza si incontravano, è vero, in un vecchio impianto abbandonato, di fronte alla palestra di boxe. Come era vero che si trascinavano appresso dei pesanti borsoni con le palle da bowling. Ma questo elemento circostanziale bastava, appunto, soltanto all’agente Ambrosetti per concludere che il loro interesse fosse realmente quello di far correre quelle palle lungo le corsie fino a far cadere i birilli. A lui no!
Già se lo immaginava come l’agente se ne fosse stato in macchina, nella strada semivuota di un quartiere di periferia, in quello che lui chiamava servizio! Bel servizio quel prendere il fresco dai finestrini abbassati! Perché, che cosa poteva mai aver pensato che ci fosse di più rilassante che stare appostato comodamente, sul sedile imbottito, che comodo era comodo, e intanto mangiarsi un panino dell’Annunziatina, dal bar sotto al Commissariato, che li faceva speciali per gli appostamenti, che non ungevano e non sbriciolavano, dato che non sarebbe stato granché professionale arrestare qualcuno con le mani tutte unte o lasciare la macchina di servizio piena di briciole per quelli del turno successivo. E scolarsi magari una lattina di birra analcolica, che calda faceva un po’ schifo, questo è vero, ma almeno aveva quel suo gusto amaro che contrastava a puntino coi pomodori secchi del panino e li portava, per così dire, a compimento. Quanto all’appostamento, che altro doveva fare? Non c’era un regolamento che dicesse che l’appostamento non potesse essere fatto principalmente con le orecchie, a sentire rotolare le pesanti palle arrivare fino in fondo e i birilli venire giù con quel loro suono tanto caratteristico. E da questo acquisire che gli indiziati non si stavano muovendo.
Eppure fu sufficiente all’Antonioni, indispettito dalla mancanza di progressi e piombato come un falco nella via deserta, spingere delicatamente la porta socchiusa, e salire in silenzio al primo piano per accorgersi che non c’era nessuno in tutto l’impianto. E che, del rumore, si facevano carico delle casse nemmeno troppo costose, sistemate con cura proprio dietro alle finestre aperte, mentre dei tre uomini, ovunque si guardasse, non c’era traccia. Ovunque avessero avuto necessità di andare, avevano avuto tutto il tempo di farlo facendo perdere bellamente le loro tracce.
Di tutt’altra pasta era fatto l’Antonioni, andiamo! Nervoso, acido, insopportabile. Probabilmente, come dicevano al Commissariato, una donna non gli avrebbe fatto male, a mantenerne indirizzati e concentrati gli istinti e le manie verso l’ordine e verso il fatto che tutti dovessero rispondergli al volo che guai a costringerlo a ripetersi. Indirizzati altrove, per meglio dire. Li avrebbero voluti vedere in molti, quell’afflato, quegli astratti furori, una volta che fosse stato irregimentato dall’anello nuziale. Ne aveva già ridotti tanti altri, prima di lui, alla ragione, quel subdolo metallo di pochi grammi. Perché pensare che non potesse fare lo stesso con lui? A trovarla, però, una, che si prestasse all’esperimento!
Niente. A tenerselo com’era, almeno provvisoriamente, l’Antonioni era tipo che, anche nelle evidenze o per alcuni soprattutto nelle evidenze non voleva, per partito preso, vedere nulla. E se sentiva giocare inequivocabilmente a Bowling, guardate voi che cosa si andava a chiedere: si chiedeva se anche nel vecchio impianto, che doveva essere stato dismesso da anni e a cui forse l’elettricità, non fosse altro che per ragioni di sicurezza, doveva essere stata staccata, se dopo anni di abbandono funzionasse ancora il meccanismo che rimetteva in piedi i birilli, tutti allineati per il tiro successivo. Questo si chiedeva, ditemi voi se è normale un pensiero come questo. E infatti no. Non è normale ma si dà il caso che sia giusto, che magari l’Ispettore con le persone non ci sapeva fare ma con la logica e mettiamoci pure, ad ogni buon conto, con gli impianti elettrici, lì sì che aveva da insegnare a molti.
Subito dietro la palestra, cominciavano i campi. Le finestre stesse, all’ultimo piano, superata qualche lamiera messa solo lì a produrre tetano e a evitar romanticherie, permettevano di spaziare con la vista fino all’orizzonte della pianura lombarda, fatto di pioppi e di elettrodotti. Ma, prima di quelli, una fitta cintura di erbacce, sentendosi forse minacciate dalla città che sorgeva a due passi, avvertendo il rischio che l’ennesima speculazione le portasse via con una sola ruspata, si premuravano di rivestirsi di aculei, come il Cardo, di frutti nascosti sotto un intrico di uncini, come la Bardana, o non riuscendo ad armarsi di nulla, quantomeno si davano la pena di gonfiare grappoli di bacche nerissime e sporchevolissime, come la Fitolacca, che solo a toccarle, appena fossero maturate, erano questioni, a casa, per quell’inchiostro viola che non ne voleva sapere di venire via.
Quando poi all’agente fu riferito l’accaduto, o l’infortunio professionale, se così lo si vuole chiamare, che lasciarseli scappare sotto il naso proprio successo non lo si poteva chiamare, una constatazione gli venne in mente: e cioè che i tre si sentivano già il fiato sul collo delle forze dell’ordine. Perché al di là dell'innocua astuzia delle casse dello stereo, non si vanno a suscitare le ire delle consorti per essersene tornati a casa coi vestiti conciati. Figurarsi quelle delle amanti che, almeno affrancate dalla smacchiatura, potevamo darle quasi per certo. Fatti salvi, beninteso, passione ed amore eterni. Che per smacchiare la Fitolacca, oltre che una certa competenza in materia, è richiesto anche amor tardo Romantico di quello potente.
Ma che ne sapeva, l’Ispettore, di questi ragionamenti che l’Ambrosetti mandava giù insieme all’amaro boccone della brutta figura? E insieme all’ultimo panino dell’Annunziatina, non più buono come quelli ingoiati spensierato in macchina. Del resto a buttarlo via solo per il dispiacere che il superiore l’avesse levato di peso, avrebbe fatto non solo peccato mortale, ma pure gran minchiata. Ci voleva altro, a questo punto. Ci voleva qualcosa che ristabilisse la situazione a suo favore. Che smacchiasse la sua reputazione.
Pensa e ripensa, l’agente Ambrosetti optò per l’intervento di mammà.
L’Antonioni, lui?, ricorrere a mammà? Non che non l’avrebbe mai fatto: non l’avrebbe mai nemmeno concepito come pensiero. Scherziamo? Eppure… Eppure l’Ambrosetti sapeva quel che si faceva. E non aveva di queste limitazioni mentali, avendone magari molte altre. Ma trovava che, stante l’ultimatum del superiore di fargli vedere risultati concreti entro la giornata successiva, fosse una buona idea mettere in campo tutte le sue risorse aggiuntive non direttamente remunerate, per dirla col gergo sempre corretto anche se un po’ legnoso dell’Ispettore. Poco importa se le risorse erano mammà e le sue amiche, non tutte coetanee grazie a dio, fra cui Ninetta la bella, che di coetanea aveva solo la sua propria mamma e che, se non era stata utile alle indagini, aveva tuttavia due occhi così, a dire solo degli occhi, che era un piacere chiamarla anche per nulla e starla a sentire mentre parlava e rideva e non si interrompeva mai. Fortuna almeno, ai sensi dell’indagine, che le conoscenze di mammà includessero anche la Concetta, che quella sì che aveva un figlio che allenava proprio nella palestra accanto al Bowling del misfatto.
Allenava, che a metterci anche il si davanti sembrava un vezzo da non addetti ai lavori, ma con scarsi risultati a vedere il fisico che qualcuno, tecnicamente, definì: da cintura nera degli sfigati, sempre che farsi i muscoli e non piuttosto guardare quelli degli altri fosse lo scopo. Ma questa per Ambrosetti era un’altra storia che non avrebbe aggiunto nulla al caso in esame. Così l’agente trovò, in una sola mattinata, salvo un paio d’ore passate al bar a chiacchierare con la Ninetta, quello che l’Ispettore, incaponendosi a tempestare di chiamate numeri di telefono a cui nessuno rispondeva, o a picchiettare irritato sulla tastiera del proprio PC, non era riuscito a combinare. E cioè l’avere qualcuno che potesse riferire a riguardo delle abitudini dei sedicenti giocatori di Bowling, che di abitudini si poteva parlare e non di un caso sporadico e isolato.
Fu a quel punto che all’Ambrosetti venne da pensare a Giorgino, il figlio dell’Annunziatina, gente che evidentemente non disdegnava i diminutivi, pur non portando il proprio amore fino al costo delle consumazioni del bar. Che avevano piuttosto dell’accrescitivo. Ma su quell’argomento stendevano rapidi il velo degli affitti, delle materie prime, degli apprendisti che li avevano lasciati nei guai. A dar loro corda persino le malannate avrebbero addotto, a non fargli notare che, diversamente dai loro antenati, era almeno trent’anni che non campavano più di agricolturali e cagionevoli raccolti.
Perché l’Ambrosetti, che di elettricità sicuramente non capiva quanto il suo capo, mentre capiva di persone, fece due più due e tornandogli in mente il panino dell’Annunziatina, gli tornò in mente anche di non averglielo affatto commissionato “da appostamento”. Come faceva quindi, la buona donna, definizione che in quel momento l’agente pensò non priva di doppi sensi, a sapere che cosa stava andando a fare? Come faceva se non sfruttando le capaci orecchie del Giorgino che, fra una cosa e l’altra, e porta su il caffè al dottore Antonioni, e fai salire al volo tre panini, scaldati o impacchettati da portar via, passava al Commissariato una quota non indifferente del proprio tempo.
Così, se per l’Ispettore quello non era che un mezzo per assolvere all’obbligo dell’alimentazione, come lo chiamava lui, per l’Ambrosetti, mai così irritato per la piega presa dagli avvenimenti, qui si era mischiato il sacro col profano, l’amore del cibo sopraffino che la donnina sapeva produrre, con la fiducia tradita. Né poteva essere una chiacchiera inaccorta dei colleghi ad aver messo la donna sull’avviso, dato che il resto della Squadra tendeva piuttosto a disdegnare quella cucina, che a loro dire era troppo piccola e fumosa, e se ne usciva tutti “impuzzati”, con un termine che faceva storcere il naso all’Ispettore. Che, oltre che di Ingegneria, non disdegnava nemmeno di Crusca.
“Ma che? Dai teti? Volando come il Batman? Vardè che siamo passati dalla porta, per uscire. Non è che, niente niente, l’agente era assopito? Che mi pare un poco, come dire? Eh? Un poco a suo agio coi divani, no?”
Questo ebbero la faccia tosta di rispondere i tre, quando il giorno dopo, convocati in Questura, furono interrogati. E se per l’Antonioni la risposta spavalda non fece che rinfocolarne l’irritazione, per l’Ambrosetti fu semplicemente la soluzione del problema. Perché a fargli illuminare lo sguardo non fu una frase e nemmeno una parola. Gli bastò una lettera. Anzi: persino una lettera mancante. Perché se invece di dire tetti, l’uomo aveva detto teti, con una t sola, allora valeva la pena concentrarsi subito sull’unico indizio disponibile. E quando, congedati i tre uomini che se la ridevano ancora sotto i baffi, l’agente, che non li aveva mai visti, chiese conferma al capo che si trattasse di veneti, l’Antonioni non ebbe nulla da obbiettare ma nemmeno partì con gli encomi per la sua sagacia. Che, tra l’altro, all’Ambrosetti in quel caso non gli sarebbero serviti come invece gli servì tornare alla propria scrivania a concentrarsi. E concentrarsi significava spendere tutte le due ore che mancavano all’appuntamento investigando su uno solo dei tre veicoli che il figlio di Concetta aveva visto nella via: sul furgone del mobilificio. Quello che, manco a farlo apposta, si adattava perfettamente all’indagine che stavano portando avanti. Perché se arrivava in città carico di mobili, era proprio tornando indietro, verso la campagna veneta, che si sarebbe prestato ad essere caricato di nuovo.
E telefona e chiedi conferma, e ottieni persino di sapere che Giorgino e il figlio di uno dei tre giocavano insieme a calcetto, il mercoledì, ecco che due ore difficilmente potevano essere spese meglio. Anzi: addirittura un’ora e tre quarti, concedendosi, l’Ambrosetti, l’ultimo quarto d'ora per rassettarsi prima dell’appuntamento con la Ninetta. Che era già il secondo, suscitando questo fatto il sorriso dell’agente, il quale provava sincera simpatia per la rotondità del numero due.
Il problema era ora un altro. E non era più capire come avesse fatto l’Annunziatina a sapere che di pedinamento si trattasse. A saperlo scientificamente, dato che a naso ci si era senz’altro. E persino l’Antonioni apprezzava certe cose, certi ingegni, certe scorciatoie, almeno in una fase preliminare delle indagini. No, il problema era capire come trasferire la vittoria di aver preso la strada giusta, dalle proprie spalle a quelle del capo, che d’accordo l’antipatia e vuoi il senso di ingiustizia. Soprattutto per essere stato abbaiato di fronte a tutti. Ma era pur sempre il capo e valeva più una sua pacca sulla spalla, per quanto l’accondiscendenza in certi casi suoni fastidiosa, che un suo calcio in culo.
Così l’Ambrosetti, magari con la divisa un po’ sbriciolata, magari un po’ più grasso del dovuto, ne era venuto a capo prima dei gran nervi e dei gran insulti mistici dell’ispettore Antonioni, che ora lo guardava dal sotto in su, seduto alla propria scrivania, mentre terminava di leggerne il rapporto e non sapeva se era il caso di cominciare a guardarlo con altri occhi o se girare lo sguardo su se stesso, che la verità l’aveva sempre avuta sotto i suoi, di occhi, ma non l’aveva saputa scovare.
E imbestialirsene.