Coronavirus: il giorno in cui scomparvero i Fenici

L’anno in cui il coronavirus ci obbligò a rimanere tappati in casa e in cui le lezioni delle scuole elementari furono portate avanti, con mille difficoltà, tramite videoconferenze, fu anche l’anno in cui la dirigenza scolastica dovette prendere alcune drastiche decisioni. Occorreva tagliare il programma scolastico. Occorreva guardare in faccia la realtà e fare in modo di salvaguardare ciò che agli studenti sarebbe davvero servito in seguito, non solo nella vita di tutti i giorni, ma nel seguito del corso di studi. E lasciare perdere tutto il resto, dato che non c’era più il tempo di fare tutto.

«La civiltà dell’Indo, tutto sommato… se ricordate, quando abbiamo fatto le scuole noi…», provò a sostenere la maestra Biondillo durante la videoconferenza di programmazione.

«Ma scherzi?», chiese esterrefatto il preside. «Con tanti studenti che hanno genitori dell’India e dello Sri Lanka?»

«Ma, Preside, la civiltà dell’Indo, a ben vedere, era in quello che oggi… è il Pakistan.»

«Solo dal 1946, comunque», ci tenne a precisare la Perucchetti, a cui mancavano sei mesi esatti alla pensione e che vedeva ancora il decolonialismo come un fastidioso momento in cui cambiare nomi e confini agli Stati. Con la confusione che, per anni, ne sarebbe derivata. «Prima era tutto India, senza stare tanto a guardarci dentro… Come la Rhodesia!»

«Ad ogni modo: la civiltà dell’Indo non si tocca», confermò il preside, forte di precise istruzioni ministeriali.

«E allora?», tornò alla carica la Biondillo. «A qualcosa dovremo pur rinunciare.»

«Se mettessimo magari insieme tutti gli accenni che di solito si fanno ad altre civiltà minori…», propose il maestro Manfrini. Il preside si sentì punto sul vivo.

«E che cosa avresti in mente, Gustavo? Togliere la menzione alla civiltà Cinese, forse? O ai popoli Precolombiani?»

Lo disse come gli avessero proposto di sostituire la foto di Mattarella con quella di Sferaebbasta.

«No, non dicevo quella cinese. Ma se mettessimo insieme tanti ritagli… un po’ qui un po’ là.»

«Se magari non parlassimo dell’alimentazione? Io ci ho messo una settimana solo per far entrare in testa che gli Egizi mangiavano Fichi e Datteri. Non ci crederete ma tutti mi rispondevano: Banane e Kiwi.»

Il corpo insegnante, collegato in videoconferenza, si mise a ridere. Così no andava bene: stavano tutti per rilassarsi eccessivamente. Si rischiava di essere dispersivi. Tanto che il preside si trovò costretto a richiamare all’ordine.

«Così però non andiamo avanti di un passo. La civiltà dell’Indo: no. Gli accenni ad altre civiltà: no.»

«A meno che non si tratti dell’Isola di Pasqua. Da quel punto di vista…», provò a rilanciare la Biondillo. Ma fu facile metterla in minoranza:

«E chi la insegna mai, la civiltà dell’Isola di Pasqua?»

«Ma il Kon Tiki, allora? E Thor Heyerdahl?»

«Ma questo alla scuola secondaria, Patrizia. Al limite. Non alla Primaria», tentò di fare ordine la Michelini.

«Dovremo cercare», disse il preside riprendendo in mano la situazione e tentando di dare un metodo, «una civiltà che non abbia eredi diretti. Non so se mi spiego: dovremo evitare di togliere a qualche studente di origine straniere, l’accenno alla propria civiltà.»

Fu a quel punto che Gustavo Manfrini prese la parola.

«Che ne dite dei Fenici?»

Ci fu un attimo di silenzio. Che era già un notevole passo avanti rispetto alle opposizioni verso le proposte precedenti. Il maestro continuò a esporre la propria tesi:

«Non costituirono mai uno stato unitario. Non lasciarono una discendenza chiaramente identificabile. Sono perfetti!»

«Ma per la scrittura latina, come facciamo?», chiese la Michelini. «Io ho sempre detto che i romani adattarono quella greca che derivava da quella fenicia.»

Il preside si sentì di intervenire:

«Questa la risolviamo facile. Diremo che la scrittura greca derivava da altre precedenti. Punto.»

Altro attimo di silenzio. Forse la cosa sembrava, tutto sommato, ben avviata. Tuttavia, a infrangere le illusioni del corpo insegnante, ci pensò la voce discorde della Perucchetti, che forse aveva in serbo da tempo la sua opposizione:

«E le guerre puniche?»

Gelo.

«Come gliele spiegate le guerre puniche senza parlargli dei Fenici?»

«Tanto si chiamano Puniche, no? Non fenice!», rispose il Manfrini.

Il preside annuiva vistosamente nel suo riquadro.

«Ma certo, diremo che si tratta dei cartaginesi. Semplicemente Cartaginesi. Tanto peggio per loro se avevano troppi nomi.»

«Ma non ha senso! Ma che discorsi sono questi?», si oppose la Perucchetti. «E da dove sarebbero nati, questi semplicemente Cartaginesi?»

«Ma i Romani, allora? Non saranno mica nati da Romolo?», si offese la Biondillo che sentiva le opposizioni della collega anziana come un attacco personale.

«Certo che no», esclamò stizzita la Perucchetti. «Sono nati da Rhea Silvia, che diamine!»

Il preside cercò di placare gli animi.

«E invece ha senso. E se non ha senso storico, si tratta comunque di una questione di necessità. Le ore non ci sono. Qualcosa dobbiamo pur fare.»

«Il male minore, quindi?», tentò come ultima carta la Perucchetti, per cedere con l’onore delle armi.

«Sì», ammise coraggiosamente il preside. «Il male minore. Me ne assumo io la responsabilità di fronte a…»

Ma non sapeva come proseguire.

«Allora siamo tutti d’accordo», chiese come se stesse chiedendo un sacro giuramento a dei carbonari. «Aboliamo i Fenici?»

Fu in questo modo che andarono le cose.